
Bello. Questa è stata la prima parola che ho sussurrato tra i corridoi del carcere di Bollate. Pensandoci adesso un po’ me ne vergogno. Come può un carcere essere bello? Bello è altro, la libertà è bella, il mare è bello, la musica è bella. Il carcere no, perché la parola carcere di per sé è brutta, per i suoi cancelli pesanti che separano le persone detenute dal resto della società; brutta per le porte che dividono le sezioni e i corridoi; brutta per l’odore di vecchio che si mescola al tanfo dell’umidità, e per i muri segnati dal tempo, da un tempo che scorre lentamente e che rende sempre più vecchi; brutta per il controllo a cui sei sottoposto ogni volta che varchi il cancello, quando devi mostrare il tuo tesserino che ti contraddistingue dall’essere uno della società libera; brutta per la sensazione che si vive quando l’agente ti chiama perché “è finita la tua ora di volontario”, o perché “è arrivato il carrello”, o perché “si devono chiudere le celle”, e tu devi andartene anche se un’altra chiacchierata e una sigaretta insieme te la saresti fatta ancora.
Io conosco solo questo carcere.
Arriviamo a Bollate.
Davanti al cancello consegniamo le nostre carte di identità, lasciamo i cellulari in un piccolo armadietto. Penso: “cazzo, e mò lo zaino dove lo lascio? ho il mio litro di tisana drenante, ora mi faranno mille controlli e battutine sulla natura del liquido”. E invece mi dicono che le borse possono entrare, ed io e la mia tisana siamo felicissime di non dover subire alcuna perquisizione. Ci viene consegnato un pass da indossare: quella sarà la prima e l’ultima volta che verremo fermati dagli agenti.
All’ingresso si presenta un marcantonio muscoloso di due metri. Penso: “ma gli educatori qui li prendono in base alla stazza?”. È Luca, che ci accompagnerà per tutta la visita, raccontandoci aneddoti e descrivendoci ogni dettaglio.
Così scopriamo che la serra è una delle principali attività di Bollate, gestita da una cooperativa che vende i prodotti anche all’esterno e che impiega le persone detenute con regolari contratti. Poi passiamo all’area industriale; qui altre cooperative e privati hanno progettato un call-center, dove si lavora con contratto nazionale, dopo vari corsi di formazione. C’è un teatro, e una grande falegnameria, poiché ognuno ha la possibilità di arredarsi la cella lavorando il legno. Poi c’è il laboratorio tessile, quello di cuoio, e ancora quello per produrre guarnizioni e cialde di caffè. E ancora una pasticceria, una pizzeria, un catering che allestisce in eventi della città. C’è il campo da calcio, uno da tennis, un maneggio. Sì, un maneggio, nel quale ci si prende cura di cavalli sequestrati per maltrattamenti o infortunati.
Ovunque guardi predomina il verde: giardini, fiori, piante, arbusti, cespugli. Durante la stagione primaverile/estiva la sala colloqui è all’aperto, in un ampio giardino dove i familiari possono stare coi propri cari seduti intorno a un tavolo, sotto un semplice ombrellone.
Luca ci accompagna mostrandoci le diverse sezioni. A Bollate l’organizzazione ha precisi criteri: la sezione degli studenti universitari, la sezione delle persone che scontano per la prima volta una detenzione, la sezione degli immigrati, la sezione dei sex offenders. La distinzione viene fatta per rispondere più facilmente ai bisogni di un gruppo specifico, ma le attività sono condivise, così come gli spazi comuni, poiché all’arrivo a Bollate tutti firmano un patto e si impegnano a convivere in maniera responsabile e senza discriminare.
Le parole «responsabilità» e «fiducia» qui si traducono in lavoro e in numerose attività che coinvolgono la maggior parte delle persone, e nell’assenza di cancelli che dividono i corridoi. Credo che chi ha costruito questo carcere abbia realizzato un significato diverso di pena: da qualsiasi prospettiva si vede sempre l’uscita. E non è cosa banale, non è scontata. Fra l’altro la direzione stessa si affaccia in un corridoio di passaggio per le persone detenute; la direzione è “dentro” insieme a loro.
Prima di incontrare i ragazzi di Jailhouse Rock veniamo accolti da una musica, che non sembra però di una radio a tutto volume, siccome voci e suoni si sentono troppo nitidamente. Scopriamo che è un gruppo a suonare, dentro una stanza insonorizzata e fornita di varia strumentazione. Forse è questo il momento in cui mi sono ripetuta: “la musica è bella il carcere no, com’è possibile che due aspetti così opposti possano coesistere nello stesso luogo?”
Verso le 15 e 30 incontriamo il capo degli educatori, che ci accoglie con una gentilezza quasi imbarazzante. Ci spiega che a Bollate i numeri sono gli stessi di un istituto medio: accoglie 1100 reclusi e gli educatori sono 12 al momento; la differenza, secondo lui, è la burocrazia più leggera e snella. Io penso tra me e me che anche dedizione, impegno e voglia di cambiare fanno tanto – restare in ufficio ad accogliere degli ospiti torinesi in un caldo sabato pomeriggio, e fermarsi a lavorare fino a tardi – e mentre tante altre domande mi vengono in mente, come sempre mi capita, scopro che è troppo tardi, e che dobbiamo andare.
Dopo aver capito, di nuovo a scoppio ritardato, che Luca è una persona detenuta, in qualità di responsabile delle visite – di prassi è invece l’educatore che accompagna le scolaresche e gli esterni – salutiamo chi ci ha ospitato, ringraziamo per la disponibilità, e ci avviamo all’uscita.
E mentre lasciamo il carcere, in un silenzio da meditazione, rifletto che comunque non voglio idealizzare ciò che ho visto, né credere che questo carcere sia una BOLLA(te) dorata. So che per esprimere un giudizio un carcere lo devi conoscere, ci devi entrare realmente dentro, osservare le dinamiche istituzionali, fra tutti gli attori, e capirne davvero l’effettiva utilità; so che un carcere non è solo istituzione, ma privazione, e dentro di sé ospita, produce e alimenta sofferenza, che solo col tempo si riesce a sentire col cuore e col cervello a valutare. Eppure a Bollate io un senso l’ho percepito, quel senso che si cerca d’infondere all’esistenza degli uomini e delle donne che ci vivono, e che vive devono rimanere, malgrado la passività a cui naturalmente sospinge la detenzione. Una pena da scontare, ma forse nel migliore dei modi. Un tentativo almeno, un senso di umanità.
L’Associazione Dentro e Fuori desidera ringraziare la rivista Carte Bollate e la redazione di JailHouseRock! per aver fatto da guida in questa utile esperienza.