Si può raccontare il carcere? La riflessione di una nostra volontaria

Si può raccontare il carcere?

Si può raccontare il carcere?

Con questa domanda inizia il secondo incontro “Diritti dei detenuti ed esperienze di insegnamento dell’arte in carcere” del laboratorio Operatori Culturali del progetto LiberAzioni.
È una domanda interessante, uno spunto di riflessione privo di una risposta semplice e lineare. Nel corso dell’incontro, diversi attori si alternano, ognuno con i suoi racconti, ognuno con le sue suggestioni.

Susanna Roncone di Sapere Plurale ci pone questa domanda e ci fa vedere il suo racconto, il Museo della Memoria Carceraria. Ci racconta il carcere tramite le vite, le storie, i vissuti di quelle persone dimenticate per anni tra quattro mura. Quelle persone che non sono solo reato ma che sono anche fatte di relazioni, di incontri, di emozioni e di scelte. Una luce di positività esce da questo intervento: è possibile raccontare il carcere, dice Susanna (anche se l’altro non è detto che lo capisca, aggiungo io).

Luca dell’Associazione Antigone, quest’anno ha scelto un racconto fatto di numeri e racconta quel carcere fatto di dati, di statistiche, di denuncia alla mala informazione, rivendicando quei dati nascosti e mai citati negli articoli sensazionalistici di giornale, con l’intento di bucare (forse) il muro delle retoriche domanti.

Gabriele Boccaccini, direttore artistico di Stalker Teatro, sceglie le immagini come racconto; sceglie la scena, anzi: sceglie un palcoscenico diverso, sul quale ognuno può (forse) essere, per la prima volta, l’unico attore della propria vita.

Rosetta D’Ursi di EtaBeta cerca di coniugare le nuove tecnologie con la possibilità concreta di creare quell’occupazione che consenta, per le persone private della libertà, di elevare un ponte tra l’interno e l’esterno del carcere.

Annalisa Pellino di Arteco, curatrice di questo evento e dialogo, nonché insegnante di storia dell’arte presso la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, ci porta la sua esperienza di quell’arte insegnata dove il bello non esiste più, dove la bellezza è rimasta fuori o (forse) va ritrovata proprio dentro ognuno di noi.

Poi ci siamo noi, con il nostro blog: quel raccontare di un carcere, lo facciamo anche noi?

Ricordo come se fosse ieri la perplessità, lo stupore, la meraviglia e forse l’amarezza a seguito di uno dei tanti ingressi in carcere. Non ho mai creduto nelle barriere, nei confini o in quelle differenze che non fanno forza o unione; una credenza che si è confermata soprattutto nel confronto con alcune persone, forse per provenienza geografica, per affinità di idee politiche o interessi comuni; e ho praticato l’idea che non esistano confini se non quelli che tu hai deciso di tracciare. A volte, quando sei lì dentro, perdi la concezione del tempo, vieni travolto da quei racconti che sgomitano a uscire e tu li ascolti credendo di capirli e riporti un po’ di quella vita che vivi fuori, raccontando quanto anche quella sia fatta di paure, incertezze, difficoltà e solitudine e dopo tante parole ti convinci che c’è comprensione, ti convinci che alla fine vi capite, ci capiamo. Quando però ti rendi conto che il tuo interlocutore ha passato più tempo della sua vita in galera che fuori, le domande e i dubbi ti sorgono spontanei: di che stiamo parlando? Come possiamo capirci se non conosci il mio mondo? E io non conosco il tuo? La mia realtà? O la tua realtà? Ce la stiamo raccontando ma siamo sicuri di riuscire a capirla?

Come si racconta quel carcere a chi non lo ha vissuto? Questa è la domanda.

Eh no, il carcere non si può raccontare. Quelle esperienze così estreme che non possono essere capite, ti rimangono dentro e te le porti con te. Tu sai che ci sono, a ogni incontro, ma non vuoi più che l’altro possa capirle. Ti arrendi, perché è impossibile capirle e senti che se l’altro non capisce il mio racconto, l’incontro non ha più senso. Il carcere non si può raccontare perché il carcere non è la sommatoria delle vite che lo attraversano o che ci vivono. Il carcere non sono i dati statistici sui suicidi, sulla recidiva, sul lavoro o sul sovraffollamento.

Il carcere è più della somma delle parti. La sua totalità istituzionale fa di lui un drago a mille teste fatto di storie, di vite, di relazioni, di meccanismi sociologici e transculturali, di ruoli e credenze geopolitiche che si intersecano tra chi vive al limite e chi sul limite, un piede dentro e uno fuori e che s’intersecano tutti assieme in difficili giochi di ruolo, impossibili da scrollare di dosso. Gli elementi si intersecano in quei codici, in cui i movimenti mutanti che nascono in continuazione, in quegli sguardi proibiti, in quei favori illegali, in quelle regole contraddittorie, in quelle geometrie variabili del diritto che fanno di quella somma delle parti un tutto con un enorme scarto che non si può raccontare. Uno scarto sottile, incomprensibile, educativo, e fuorviante, a volte destabilizzante e a volte affascinante, sociologicamente parlando, per la capacità che hanno gli uomini nel creare meccanismi così contorti e complicati e per la capacità di aver creato una macchina così imperfetta che resiste ancora alla sua più totale rottura.

Quindi sì, mi viene da dire: il carcere non si possa raccontare se con il racconto si ha la pretesa di cogliere quello scarto.

Se quindi assumiamo che il racconto esiste e può esistere ed essere legittimato solo nella presenza dell’altro, nello specchio di un altro che ci ascolta e dal quale pretendiamo la totale comprensione, allora no: il carcere non può essere raccontato. Però, mentre lo dico e mi rendo conto della sua complessità, colgo del cosmico pessimismo che può essere frainteso.

Cambio prospettiva, cambio sguardo: e se il racconto non avesse bisogno dell’altro?

Se il racconto si autolegittimasse anche solo nel trasmettersi, nel cacciarsi, nel dirsi? Se il racconto servisse al narratore per il bisogno di riportare fuori da sé, per vedersi e riconoscersi anche nel racconto stesso? Allora sì, il carcere si può raccontare. 

Se il racconto avesse come specchio solo se stesso o se l’altro non fosse altro che quello specchio dal quale non si pretende comprensione ma solo ascolto? Se il racconto volesse solo essere ascoltato? Allora sì, il carcere si può raccontare.

Se quindi assumiamo che raccontare serve per raccontarsi e ascoltare anche senza restituzione, per riscoprire pezzi di sé in quel racconto, per poter cogliere suggestioni, parole; le quali, per quanto non possano essere capite in toto, sono parole che rimangono, suggestioni, tracce, orme che nell’altro fanno vita, crescita, storia.

Quel racconto ti passa sulla pelle e ti rimane addosso, come una cicatrice, di cui forse non comprendi tutti i punti. Quanta bellezza può anche esserci nel lasciare un punto non compreso che forse si colmerà con il tempo, una traccia indelebile sulla pelle dell’altro? Quanta bellezza ci può essere nel sapere che la totale comprensione è impossibile? È la bellezza di sapere che avremo sempre qualcosa che rimarrà solo nostro; e che quel racconto può servirci per riconoscerci, per fare un pezzo di strada insieme, per coglierne le suggestioni che l’altro rimanda alle suggestioni ricevute.

Allora il carcere si può raccontare ed è fondamentale farlo.

Quel racconto ha bisogno forse solo di ascolto, un ascolto muto, incomprensivo e forse incomprensibile, per riconoscersi, per colmarsi, per vedersi e autoleggittimarsi in una storia

Quanto però anche la scelta di un silenzio dice molto del suo ascoltatore; e quanto la scelta dei temi del racconto dicono molto del narratore? Quanto è vitale quel racconto per chi lo vive, narratore e ascoltatore?

Quanto è vitale quel racconto e la non casuale scelta dell’argomento da trattare, in un mare di racconti di storie detentive, deresponsabilizzanti, umilianti, criminalizzanti, in quel mare di racconti mediatici?

Penso alle retoriche dominanti citate da Luca, dal caso Varani, passando per Laura Sulejmanovic, Doina Mattei fino al caso Riina; penso a tutti questi casi mediatici, e penso alle scelte del racconto dei giornalitrafiletti striminziti per la famiglia Varani che non esulta al suicidio in carcere del presunto assassino di suo figlio e pagine di giornale dedicate alla famiglie della vittima di Laura, che incitano all’odio e alla violenza razziale. Penso al feroce dibattito sulla malattia di Rina e sulla moralità vergognosa per una foto sorridente di una Doina Mattei finalmente in permesso.

Penso che in questo mare mediatico, le vite che raccontiamo, fatte di forze e debolezze, di errori e scelte, con il blog, con il Museo della Memoria Carceraria, con Lettera 21 o i dati di Antigone fanno la differenza realizzando quel racconto nel racconto che ferisce e fa pensare e che a gomitate si fa spazio tra la folla della razzializzazione, della rivendicazione e della sanzione, in quel mare di rabbia che viviamo e vediamo tutti i giorni e nel quale non si è sempre capaci di integrare.

I nostri racconti fanno integrazione di tipo transculturale ma non solo: essi restituiscono anche, di quel mondo del diritto di leggi asettiche, contraddittorie e discrezionali sotto il cappello de “La legge è uguale per tutti”, il vivente, il movimento, lo scambio, la vita, pur nel confronto di vite che non si sarebbero mai incrociate, che non sanno di esistere l’una per l’altra ma che si conoscono e possono riscoprirsi anche amici, solidali, complici, nemici, indifferenti o di passaggio ma in ogni caso esistono o sono esistite l’una per l’altra.

M.

 

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