Una nostra volontaria racconta il docufilm "Spes contra Spem", sul tema della vita in carcere

“Spes contra Spem”: le considerazioni di una volontaria

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Inevitabilmente perplessa, dubbiosa, rabbiosa forse angosciata.

Così mi sono sentita dopo la proiezione del docufilm “Spes contra Spem” del regista Ambrogio Crespi, che raccoglie, racconta e proietta le testimonianze di uomini in ergastolo ostativo; d’altronde non ci si poteva aspettare altro da un film il cui titolo è la locuzione latina del “padre della chiesa” che professando una speranza contro ogni speranza insegna come diventare il padre di molti popoli. Ma poi perché qualcuno vuole diventare il padre dei popoli? Ma, vabbè, questa forse è un’altra storia.

Un titolo preso da un passo della bibbia per un docufilm che parla di persone “viventi ma non esistenti” è l’inizio di uno dei tanti messaggi subliminali che vengono trasmessi all’ascoltatore come piccole gocce che cadono dal soffitto per poi diventare la pozza del “buonissimo” perbenismo cattolico che ci governa. Rabbia.

Sembra che da questa disfattista cornice il quadro sia da buttare, invece non credo sia così. L’impresa mi è sembrata ardua, difficile da raccontare da principio e su queste tematiche è molto facile prendere qualche scivolone in quella pozza che ci accompagna da quando siamo nati. Gli spunti di riflessione sono tanti, e solo il fatto che qualcuno abbia scelto di dar voce a chi è rinchiuso da 22 anni in una cella di isolamento; 22 anni; 8,030 giorni; 192,720 ore; 11,563,200 minuti, è scelta da lodare.

Difficile raccogliere i pensieri su questa carta, quelle vite vissute in pochi metri quadri, la straordinaria capacità che ha l’uomo di rimodellarsi così tanto da riuscire a sopravvivere a quel buco, la fisiologia di un corpo che cambia, che si adatta alle condizioni più avverse; d’altronde, anche il piccolo bimbo “degli orsetti lavatori” dopo un po’ in un buco sottoterra impara a guardare anche al buio, affina la vista come il Micheal Scofield di turno che rinchiuso nel ripostiglio di casa sviluppa delle doti e le mette, però, al servizio della libertà. Ma forse anche questa è un’altra storia.

Tra queste finestre/storie che si aprono e si chiudono come una matrioska, ne rimane solo una: le storie che abbiamo sentito sono di straordinaria follia, non tanto, credo, e per questo sarò impopolare, per gli omicidi commessi prima della carcerazione, ma di straordinaria follia per la capacità di sopravvivere. E ovviamente con questo non penso che non sia “folle” uccidere qualcuno, ma anche questa è un’altra storia.

Quello su cui voglio forse soffermarmi è la voglia di vivere e la capacità di resistere in un contesto così ostico, così privo, così ricco di niente in quel “mondo a parte” sulla terra della libertà, ma la terra dei suicidi, in cui la depressione e la scelta di non-vita per chi esiste in questa libertà, la scelta di non resistere a questa difficile vita precaria e morosa, a volte offensiva e umiliante sembra essere l’unica strada tanto che qualcuno la narra come l’unica forma di libertà che ci è rimasta; di contrasto la capacità di resistere a quella privazione, per me che vivo questa libertà,

Mi rende perplessa. Mi stupisce. Mi colpisce.

Quasi da pensare che la vita in libertà sia peggiore di quella in reclusione. Eresia!

Allora come è possibile? Come è possibile sopravvivere a tutto questo? È forse quel famoso processo di prisonizzazzione di Clemmer che regna sovrano su queste vite?  E pure mi rende perplessa lo stesso: quanta speranza dà la privazione? E, soprattutto, quanto sono potenti i sogni per alimentare così tanta speranza?

Dalle testimonianze ascoltate, si ravvede un sentire quasi a volte di gratitudine verso questa istituzione che gli ha privato della vita per donargli la vita, per farlo ragionare, per farlo riflettere e ritrovare quella libertà che “si trova dentro”. Liberi dentro, quelle frasi a effetto dei titoli, un po’ come “ognuno di noi vive una piccola prigione”, quei concetti profondi, quasi filosofici, shopenhauerianamente depressivi che credono di dire tutto ma forse non dicono nulla. Liberi dentro la galera, come liberi dentro se stessi, liberi dallo scoprire “che non si è costretti a uccidere”, ma quanto malsana può essere la nostra società per aver bisogno di privare di tutto un uomo per dargli vita, per dargli valori, per fargli capire che vita non è scegliere di togliere vita? D’altronde, come alcuni genitori che puniscono i figli togliendogli la tv, o le uscite o il telefono, pensando che così questi possa essere educato (educato a cosa? All’obbedienza?) ecco che lo Stato, padre putativo, emblema di un meccanismo assistenzialistico, punisce i suoi cittadini, toglie per educare. Educa all’obbedienza, questa stessa obbedienza che può essere fruttuosa quando i valori sono moralmente accettati dalla società, ma l’obbedienza è solo un meccanismo di forza, è solo l’accondiscendere a chi ha più potere di me, un padre, un poliziotto, il capomafia, lo stato, a prescindere dai valori che vengono trasmessi. Accondiscendo. Un processo fruttuoso se i valori sono il rispetto dell’altro ma infruttuosi se vanno nella direzione opposta, quindi un processo comune con conseguenze diverse a seconda di chi si incontra sul cammino. Un buono o un cattivo. Forse è il processo che va cambiato.  Educare alla libertà non all’obbedienza.

L’introduzione narra di un film scritto da criminali che sgretolano il mito del criminale stesso, ma chi ha creato sto mito? Non credo che sia stato il criminale ad aver creato il mito di se stesso, diciamo che i miti si creano perché ci sono dei fan, e si può essere fan di se stessi ma non a tal punto da crearsi un mito da tutti riconosciuto. Chi ha creato questo mito, se non le testate giornalistiche, i Saviano di turno, “il camorrista” o “la mafia uccide solo d’estate” – chi ha creato questo mito se non la stessa società che produce criminali per poi poterli arrestare? Chi ha creato questo mito dandogli dei valori, chi ha descritto il codice del mafioso-criminale, facendo sì che questo sia un mito? Chi ha dato la possibilità a questi di sostituirsi allo stato inadempiente creando un altro Stato che però almeno assolve e risponde nell’immediato alle diseguaglianze sociali, alla precarietà, alle richieste di Equitalia e all’esigenza dei tetti sulla testa o di un piatto a tavola? Le mancanze dello stato forse?  La nostra società? E quindi ancora forse il dentro è meglio del fuori. Eresia!

Però, se esiste un dentro è perché il fuori è un po’ malsano, un po’ arrivista, un po’ cinico e competitivo, un po’ prepotente e arrogante, e non tutti sono squali in questo mare, e chi entra dentro (mi vien da dire) poi è il pesce più piccolo, perché il vero squalo la rete la spezza appena catturato.

Queste forse le riflessioni che mi lasciano questo film, quanto è strana la nostra società, per aver bisogno di togliere tutto a qualcuno per cercare di dargli qualcosa, quanto è strano dargli tutto costruendogli un mito per poi toglierglielo smantellando ogni principio, quanto è strano sentire un velo di gratitudine per questa amministrazione che mi ha chiuso le porte ogni giorno per 22 anni e mi ha visto in un buco ogni giorno e ogni sera è tornato a casa coricandosi accanto alla propria moglie. Come è strano da un lato vedere uomini privati che quasi ringraziano di aver “vissuto senza esistere”, di essere morti ancor prima di vivere e dall’altro chi ha vissuto uccidendo tutti i giorni senza rendersene conto, chi ha chiuso celle e oggi millanta parole da eroe, un guardiano della coscienza di un altro, protettore di uno Stato che egli stesso descrive come inutile, agente attivo di quella reclusione raccontata come un fallimento ma per la quale continua a girare chiavi nel senso sbagliato, che vive la libertà privando quella di altri, che uccide tutti i giorni senza essere arrestato.

Colpa, espiazione e speranza le parole chiavi, parole da brividi, quanto infruttuoso clero c’è in queste parole, le stesse che mirano ad essere il padre dei popoli, quanta poca libertà c’è nello scegliere di voler essere il padre di un popolo. Quanta poca libertà c’è in uno Stato che sceglie come manifesto elogiativo di se stesso un “fine pena mai” e il ringraziamento di reclusi verso chi li ha sottratti alle loro vite “libere” perdute, senza coglierne il fallimento, senza coglierne la contraddittorietà con tutti i principi che professa. Quanto paradosso c’è in tutto questo, un sottosopra ingestibile, un sottosopra da ricapovolgere in fretta. Speranza, certo non è una brutta parola, avere speranza o “essere speranza”, come ha forse preferito Pannella, quella locuzione da abbinare al detenuto, essere speranza, speranza di cosa? Forse per lui da radicale, liberale, liberista, libertario, social-liberale, e chi più ne ha più ne metta, riconoscere speranza in privazione, in chi è recluso è forse la via per l’educazione alla libertà, provo a leggerlo così, provo a credere che fosse un vero sognatore, provo a credere che puntasse a quello, alla libertà tanto professata nelle sue etichette.

L’unica parola chiave che conosco è educare alla libertà, educazione che serve a chi uccide fisicamente girando chiavi nel verso sbagliato o impugnando pistole, e a chi uccide moralmente pronunciando sentenze. Ciò che li accomuna, ciò che unisce queste due facce di una stessa medaglia è la voglia, il desiderio di decidere per le vite degli altri, l’arroganza o la presunzione di potersi impossessare di un essenza, di un essere, di essere padre dei popoli, guardiani delle coscienze, eroi dello stato o miti di qualcuno. Sempre un gradino più in alto a qualcun altro.

M.

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