Walter racconta la sua esperienza con il reinserimento nel carcere di Torino

L’esperienza di Walter sul reinserimento

Walter racconta la sua esperienza con il reinserimento nel carcere di Torino

La valenza dell’art. 21 e delle borse lavoro nel programma di reinserimento nel mondo del lavoro è indiscutibile, pur con alcune limitazioni.

Io ho la fortuna e il privilegio di poter usufruire dell’art. 21 esterno, “Progetto Amiat”, che mi consente di uscire dal carcere tutti i giorni, dal lunedì al sabato dalle 6.00 alle 15.30 per lavorare.

Ho parlato di fortuna e privilegio in quanto il progetto coinvolge 30 detenuti, e a fronte di una popolazione carceraria di oltre 1.200 detenuti è logico pensare che molti altri avrebbero le caratteristiche (comportamentali e di volontà di reinserimento) per aderire al progetto.

Ecco, quello dell’esiguo numero di persone “gratificate” dell’art.21 esterno è un limite che bisogna superare tramite nuove proposte.

È vero che esistono altri progetti, oltre a quello del comune di Torino con Amiat, che coinvolgono altri detenuti, ma resta il fatto che ancora troppo pochi sono i destinatari di questi “lavori esterni”.

Il problema del lavoro in carcere (anche e soprattutto all’interno) è la questione basilare: il lavoro è il viatico più importante per riavvicinare i detenuti alla “società civile”, il lavoro permette a chi è recluso di non sentirsi completamente emarginato. Sentirsi parte integrante del mondo del lavoro consente (a chi naturalmente ne è convinto) di dare un senso e una seria motivazione al periodo che bisogna giocoforza passare in carcere.

In quest’ottica anche l’art.21 interno assume importanza fondamentale, consentendo ai detenuti coinvolti di lavorare a tempo pieno, potendo così sopperire al proprio mantenimento e, in molti casi, aiutare le famiglie, anche grazie alla rivalutazione degli stipendi avvenuta a inizio anno.

Purtroppo raramente il lavoro svolto durante il periodo di detenzione ha un seguito una volta estinta la pena. Nel caso del Progetto Amiat, ad esempio, l’Azienda non può assumere direttamente e quindi l’esperienza pur positiva con i detenuti è destinata a non avere un seguito quando il detenuto non sarà più tale.

A mio modesto parere una possibile soluzione alle problematiche lavorative in carcere potrebbe essere quella delle “cooperative interne” formate da detenuti. Una struttura grande e variegata come il Lorusso e Cutugno ospita sicuramente ogni tipologia di lavoratori (muratori, idraulici, falegnami, ecc.) e quindi formare cooperative di lavoratori (i costi per la creazione di una piccola cooperativa sono sostenibili) consentirebbe ai detenuti di lavorare all’interno del carcere, sia per quanto riguarda la manutenzione ordinaria della struttura, sia per la creazione di prodotti da vendere all’esterno (mobili e accessori d’arredo) e anche la fornitura di servizi, penso alla lavanderia, al panificio e alla cucina stessa.

I detenuti appartenenti a queste cooperative una volta scarcerati potrebbero continuare l’attività all’esterno, restando soci della cooperativa stessa. Mi rendo conto che la fattibilità di tali progetti deve fare i conti con regole burocratiche ferree e la mancanza congenita di fondi, ma è comunque uno spunto per spingere tutti (detenuti, istituzioni, Comune) a ragionare in modo serio e approfondito sul tema “lavoro in carcere”.

Bisogna però sottolineare il fatto che da tre anni a questa parte (da quando io sono stato internato) i posti di lavoro all’interno del carcere sono notevolmente aumentati, oltre che meglio retribuiti, e di ciò bisogna dare atto alla Direzione che ha dimostrato e ancora dimostra particolare sensibilità ed attenzione al problema.

Walter

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