Scheda film: https://www.ilcontesto.org/evisioni-2018/il-clan-dei-ricciai/
Dal titolo molti di noi pensavano si trattasse di un documentario sulle gesta di qualche famiglia malavitosa, ma già dalle prime immagini si è ben capito che si trattava di altro. E sì, perché i ricciai, pur assumendo alcune dinamiche tipiche di un gruppo criminale, come la forte solidarietà e la chiusura verso l’esterno, sono una sorta di società di mutuo soccorso per ex detenuti.
La cooperativa dei pescatori nasce da un’idea di Gesuino Banchero che da decenni opera Cagliari trasformando il mare in una grande “agenzia di collocamento” per disagiati. Le storie narrate dai protagonisti hanno come comune denominatore una lunga detenzione, situazioni familiari complicate e propensione alle dipendenze, ma anche la ferma volontà di cogliere appieno l’occasione di cambiamento.
Ed è proprio in questo riscatto dopo anni di patimenti nelle dure carceri dell’epoca raccontati senza vittimismo o pietismo, che si rinviene l’elemento di positività nella pellicola. La circolarità di una detenzione interiore senza fine, che non termina neppure quando si aprono le porte del penitenziario, è spezzata dalla volontà di questi uomini che nella dura pesca dei ricci trovano una diversa collocazione identitaria. Ma il doversi di nuovo “rinchiudere” in questa sorta di enclave autosufficiente, secondo il mio punto di vista, rappresenta il plateale fallimento del sistema carcere che dopo aver tenuto per lustri presso di se le persone le restituisce la società distrutte, annientate e senza alcuna possibilità di reinserimento (confermato dal celeberrimo dato sulla percentuale di recidiva vicino al 70%).
Non si mette in dubbio il valore di simili iniziative, ma i “ricciai” d’Italia quanti sono? Quanti sono coloro che possono usufruire di un simile paracadute e quanti invece si trovano alla porta con un sacco nero contenente pochi stinti vestiti e altrettante misere speranze? Questi ultimi sono purtroppo la maggioranza e quello che vorrei, forse utopisticamente, è che non ci fossero più i “Clan dei Ricciai”.
Vorrei che chi uscisse dal carcere non raccontasse più storie di abusi, di prevaricazioni e di diritti negati. Vorrei che non parlasse più di carcere come Università del crimine, ma ne parlasse come di un periodo di rinascita, di dura assunzione di responsabilità ma anche di nuove acquisizioni, come la fiducia in qualità mai neppure supposte di avere. Vorrei che la società riconoscesse il palese cambiamento e accogliesse il diverso, ma come dicevo prima, soprattutto in questo periodo storico tutto ciò ha il sapore del irraggiungibile chimera per cui ben vengano i ricciai!!! (Poi a Torino cosa potremmo raccogliere? Le castagne? I funghi?).
Permettetemi solo ancora due considerazioni: voto 0 a Joe Perrino, il cantante della malavita, il Piero Pelù della Sardegna davvero non si può vedere.
Voto 10 invece per il racconto e la descrizione delle modalità di creazione dei tipici tatuaggi carcerari, aprono un mondo.
Daniele