Esiste un posto in cui il cielo è una striscia rettangolare… è un cielo agognato e consumato… è una porzione risicata di blu. È il cielo del carcere. Lo guardo per un’ora al giorno, mentre consumo i miei passi sempre dentro lo stesso perimetro, un cortile dalle pareti marce, che contiene tutta l’aria che mi aspetta. L’aria è ottima quando riesco a passare. Un vecchio ergastolano dice… le sbarre sono un peso che ti sei guadagnato, il mondo dentro segue criteri ben precisi, a cui il destino non accenna, al primo vagito. Talvolta, costringe per disperazione o miseria. Per quel reato che avevo promesso fosse l’ultimo… La morsa della fame è una brutta bestia, soprattutto se a patirla è un figlio. L’aria del carcere è un’aria ferma, condivisa, che tocca spartire con altri, in tre, addirittura, nella stessa cella, in solo tre metri quadri, i piedi che si toccano l’un l’altro, fuori dalle brande è un’aria fin da subito comune, a prescindere dalla condanna e dal reato commesso. Per questo, scorda il pregiudizio. Non può reggere un fardello tanto pesante. Per essere spartita, deve farsi leggera. Può persino capitare che la vita sia sadica, gioco sporco a carte coperte. Beffarda, mi redina dai piccoli crimini che ho commesso, fino ad un certo punto, poi, decide di smettere di proteggermi, di colpo mi sono trovato al cospetto dell’età adulta e il gravame delle responsabilità, che sono arrivate insieme, purtroppo, non ero lì, lontano, in un’altra città, addirittura… Ma il cognome che porto parla da sé, non è un’appartenenza privata e innocente… Espone troppo, in una terra nuova, a cercare di meritarmi un perdono per un passato recidivo che mi ha inchiodato. Un’infanzia negata, in nome della necessità, dell’emergenza, della fretta segnata dall’errore profondo, senza dubbio. Nel buio senza via d’uscita, che non mi promette nulla di buono. La luce del carcere è una luce finta, ricavata, sintetica, fioca, rimanda continuamente alla pena. È una luce regolata dalle guardie, che si muovono dall’altra parte. Oltre un confine marcato, che fa di chi entra un detenuto… un corpo sospeso in attesa del fine pena. Un pezz di carne che cammina, per un tempo indefinito, uniforme, scandito per non impazzire. Un tempo sprecato, spesso dedito al niente. Cucito a posta. Ne passa in quantità, prima di arrivare in cella, in previsione dello smistamento ho imparato ad aspettare, a sgomitare per avere un posto, un diritto è un tempo tormentato, persino dagli accenni alla vita di fuori, che alla fine ci aspetta, dai colloqui che ci tengono vivi, ma solo in parte. Evocano, senza tregua, il male commesso. Richiamano il motivo per cui siamo stati privati della libertà. Le carceri italiane non sono tutte uguali, come le voci di chi come me le abita. Alcune volte sono urla, altre ancora sono guide. Questa è la descriminante che determina la sopravvivenza al di là delle sbarre. L’istituzione, innanzitutto, deve interrogarsi. Poi, capire quale sia la soluzione per non scordare il resto, dopo il male. Quel male che è muro, granitico punto dìarrivo, può diventare trasparente. Non smette di esistere, si stira per fare spazio all’uomo. Il carcere non può e non deve essere un’isola impenetrabile. Chi lo dice ha una visione ignorante, illusoria, colpevolmente enfatizzata. La vera sicurezza la dà una giustizia riparativa, che rimedia al danno, persino una figura ecclesiastica molto nota, auspica che le riforme in parlamento su giustizia e carcere garentiscono due dimensioni… lo spazio, per garentire condizioni di vita degne e per preparare al dopo. Lavoro, formazione, educazione e il tempo da riempire di significato. Perché abbia un orizzonte. Senza, è solo un momento punitivo e terribile, insomma chi vuole buttare la chiave si illude. Senza misure alternative la recidiva è più alta e la società più insicura.
Michele