Ho passato 10 giorni di fila di fronte alla stessa pagina perché non veniva come volevo, per poi scoprire che l’avrei pure cancellata. Mi sono incastrato in tutti i blocchi possibili e immaginabili, in una serie di frasi snervanti che non sempre andavano a buon fine, una frase che non suonava bene riscritta dozzine di volte, ma non ho mai pensato nemmeno di sfuggita: « Sono stufo! Chiudo qua».
Volevo finire e volevo finire come pareva a me. Punto! Sono la persona più pigra del pianeta, ma quando voglio sono ostinato come un caprone e dovevo finire quella pagina.
Ci sono stati tantissimi momenti in cui mi sono chiesto: ma perché voglio scrivere sull’ “autoreclusione”? Caspita, in galera solo un recluso non un auto recluso!
Stanco, irritabile, lunatico, insofferente a tutto, anche a me stesso. Non ero allenato a stare su un emozione di paura così a lungo, né a fare i conti con l’indeterminatezza della sua fine.
La stanchezza prevale sulla speranza, sulla disperazione e, almeno per ora, sulla rabbia. Può sembrare un paradosso, ma è molto facile per un recluso restare preda della paura e chiudersi ancora di più in uno spazio vuoto e buio dentro sé stesso. In quei momenti, inevitabilmente la cella può diventare il suo guscio, quasi una protezione, con la sua prospettiva ristretta.
Volevo scrivere della paura.
E di tutta la fatica e l’impegno per combatterla, diventando volontario in biblioteca, partecipando a tutti i laboratori possibili, addirittura frequentando la scuola alberghiera, io che sono ormai in pensione. Tutto per aiutarmi a mantenere la mente sveglia e presente, tutto per non sprofondare in quell’oscurità.
Un allenamento duro, continuo, come quando mi preparavo alle immersioni subacquee, uno sport che amo… e ora mi preparo ogni giorno a quello dopo.
Giuseppe